Cosa sono i fattori di investimento?

Nel mondo degli investimenti non si è mai sopita la polemica tra i sostenitori della gestione attiva e quelli della gestione passiva.

I termini della questione sono noti. Chi si affida alla cosiddetta gestione attiva ritiene di poter sovraperformare un determinato benchmark attraverso scelte in termini di stock picking e/o market timing, scegliendo cioè quali titoli comprare o vendere e quando farlo.

La gestione passiva, invece, si prefissa l’obiettivo di replicare un determinato benchmark, senza nessuna ambizione di ottenere un rendimento più elevato. 

Tra la gestione attiva e quella passiva vi è anche una terza via all’investimento che utilizza quelli che vengono comunemente definiti fattori di investimento.

Di che cosa si tratta?

Nel corso degli anni, la ricerca finanziaria ha dimostrato che alcune specifiche caratteristiche dei titoli possono generare rendimenti superiori rispetto agli indici di mercato tradizionali nel corso del tempo.

Investire nei fattori di investimento significa selezionare sistematicamente titoli che hanno queste caratteristiche e sfruttarne la tendenza a produrre un rendimento di lungo periodo che supera quello medio del mercato.

Siamo quindi in un territorio di mezzo tra la gestione passiva e quella attiva in quanto non si mira semplicemente a replicare l’andamento di un indice azionario ma si cerca di batterlo utilizzando però criteri sistematici che vanno alla ricerca di alcune caratteristiche proprie delle azioni piuttosto che affidarsi alla discrezionalità dei gestori in termini di stock picking e market timing.

Ma quali sono questi fattori di investimento?

Negli anni Sessanta, il rendimento atteso di un’azione si faceva dipendere solo dalla sua sensibilità rispetto all’andamento del mercato. Nel Capital Asset Pricing Model era infatti proprio il coefficiente beta a spiegare il rendimento atteso. Un beta maggiore era sinonimo di maggior rischio e quindi di un maggiore rendimento atteso. 

Negli anni Novanta, Fama e French dimostrarono come, oltre alla sensibilità a movimenti del mercato, anche altri due fattori, size e value contribuissero a spiegare il rendimento atteso di un titolo. In particolare, si notò come le azioni delle società a bassa capitalizzazione (size) tendessero ad offrire un rendimento addizionale rispetto a quelle delle società a larga capitalizzazione e quelle il cui prezzo di mercato risultava inferiore al valore fondamentale (value) tendessero a sovraperformare nel tempo le azioni delle società le cui azioni erano più care.

Da allora la ricerca finanziaria ha indagato su tantissimi fattori di investimento che possono contribuire a spiegare i rendimenti attesi di un’azione. John Cochrane ha parlato di uno “zoo di fattori”. 

Tra i più comunemente accettati ve ne sono comunque almeno cinque:

  • Size: le azioni delle società a capitalizzazione più ridotta tendono a sovraperformare quelle a grande capitalizzazione
  • Value: le azioni che trattano a prezzi inferiori al valore fondamentale tendono a sovraperformare le azioni più care
  • Momentum: proprio come nella fisica, i titoli che hanno una maggiore spinta al rialzo tendono a mantenerla per un certo periodo di tempo
  • Quality: le azioni delle società con bilanci più solidi e che garantiscono una generazione di utili elevata e stabile tendono a far meglio di quelle con bilanci più fragili
  • Low volatility: le azioni che hanno una volatilità ridotta tendono a far meglio di quelle con volatilità elevata

Quest’ultimo punto merita forse una considerazione ulteriore visto che sembra negare l’assunzione fondamentale della finanza che associa maggiore rischio a maggiore rendimento atteso.

In effetti ci si riferisce spesso alla tendenza a sovraperformare da parte delle azioni a bassa volatilità come low volatility anomaly. Questa apparente anomalia si origina dal fatto che spesso i gestori, per sovraperformare il proprio benchmark, preferiscono tenere in portafoglio titoli ad alto beta snobbando quelli a bassa volatilità che possono quindi essere acquistata a prezzi convenienti e questo gli garantisce un premio in termini di rendimento nel lungo periodo.

Ha senso dunque utilizzare i fattori di investimento nella gestione di un portafoglio?

Sicuramente, vista la dimostrata tendenza a sovraperformare gli indici generali e il fatto che oggi vi si possa facilmente investire (per esempio attraverso gli ETF smart beta), si tratta di una strategia che vale la pena considerare.

Occorre però evidenziare un paio di aspetti. In primo luogo, i fattori di investimento tendono a performare diversamente all’interno del ciclo economico con i fattori size, value e, in parte, anche momentum che tendono ad essere più ciclici mentre i fattori low volatility e quality tendono ad essere più difensivi. Fare una sorta di market timing dei fattori non è però una cosa semplice per l’investitore privato.

Meglio quindi tenere in portafoglio un’esposizione diversificata ai fattori per il lungo periodo tenendo però conto del fatto che, sebbene tendano a sovraperformare nel lungo termine, possono attraversare dei lunghi periodi di sottoperformance. Si pensi ad esempio al caso del fattore value che, negli anni seguiti alla grande crisi del 2008, ha attraversato un periodo di lunga e pronunciata sottoperformance.

Una volta chiari questi aspetti e consci del fatto che si tratta di fattori di sovraperformance di lungo periodo, una strategia diversificata di investimento nei fattori appare una scelta assolutamente condivisibile.

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