Gli USA sono diventati “arabi”.
No, non per ragioni geopolitiche, ma perché il governo ha preso ispirazione dai famosi negoziatori arabi dei mercati tradizionali: i suq.
Nelle ultime settimane l’attenzione dei mercati internazionali è tornata a concentrarsi sulle politiche tariffarie degli Stati Uniti, in particolare dopo le lettere ufficiali inviate dal Presidente Trump ai principali partner commerciali. Tra le misure annunciate, spicca l’intenzione di imporre nuovi dazi del 30% su tutte le importazioni provenienti dall’Unione Europea, con entrata in vigore prevista dal 1° agosto 2025.
Di fronte alla minaccia concreta dei nuovi dazi, l’UE ha annunciato la riattivazione di un pacchetto di misure di “riequilibrio”, che comprende tariffe aggiuntive su beni americani per un valore stimato di circa 84 miliardi di dollari.
Secondo quanto emerso da un incontro a Bruxelles, i ministri dei 27 Stati membri hanno confermato l’intenzione di procedere con fermezza qualora non si raggiunga un accordo con Washington prima della scadenza di agosto. La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ha dichiarato che l’obiettivo primario resta la negoziazione, ma che “tutti gli strumenti sono sul tavolo”.
La stile è quello del “Whatever it takes”, questa volta per trasmettere l’immagine di un’Europa unita e determinata a reagire.
Ma il problema asimmetrico resta: gli Stati Uniti sono importatori netti e possono permettersi di giocare molto più facilmente con dazi e barriere commerciali. L’Europa, invece, ha meno margini di manovra, soprattutto perché è difficile immaginare che i 27 Paesi membri si muovano all’unisono in una direzione unica e definita. Questo li indebolisce strutturalmente nei negoziati globali.
Trump si tirerà indietro questa volta?
Dipende anche dai mercati.
Finora abbiamo visto che il presidente USA è solito fare annunci roboanti, per poi ridimensionarli e ottenere un effetto positivo sui mercati azionari (dove si trova una parte importante della sua base elettorale).
Nel caso specifico dei dazi al 30% sull’Europa, però, questa tattica potrebbe non servire più: i mercati sono già vicini ai massimi storici, e questo incoraggia Trump a proseguire con una linea dura, rafforzando la sua narrativa protezionista.
Se si dovesse arrivare a un accordo, sarà il risultato di negoziati paralleli, soprattutto su energia, armamenti e sulla domanda di titoli di Stato americani. Non crediamo che alla Casa Bianca sia sfuggita la tendenza degli ultimi anni degli investitori di rifugiarsi nell’oro. Questo segnala una crescente incertezza a lungo termine, che mette in discussione la fiducia nel sistema valutario globale e, in particolare, nel dollaro USA.
Le valute che utilizziamo ogni giorno si basano su un delicato equilibrio di fiducia: fiducia che gli altri continueranno a riconoscerne il valore che attribuiamo loro, e fiducia che governi e banche centrali ne manterranno la stabilità entro determinati margini.
Quando questa fiducia inizia a vacillare, per esempio perché gli strumenti di controllo diventano meno efficaci o meno credibili, allora l’intero sistema monetario entra in crisi.
È anche per prevenire questo tipo di scenario che Trump farà il possibile per mantenere bassi i tassi di interesse a lungo termine, in particolare sui Treasury decennali. L’obiettivo sarà quello di contenere i rendimenti, negoziando dietro le quinte per stimolare una domanda “artificiale” su quella parte della curva.
In questo senso, i dazi rappresentano uno strumento negoziale potente, che potrebbe essere usato per ottenere concessioni commerciali in cambio di acquisti di bond americani, contribuendo così a far abbassare i rendimenti.
Questa strategia si inserisce in un contesto in cui gli USA privilegiano già le emissioni di debito a breve termine, per non appesantire la parte lunga della curva. Inoltre, Trump ha iniziato a sostenere anche l’adozione delle stablecoin, le quali, per mantenere la loro parità con il dollaro, devono detenere riserve, spesso costituite da debito pubblico americano, creando così ulteriore domanda, soprattutto sulle scadenze brevi.
In un contesto come quello attuale, gli operatori continuano a comprare perché sono convinti che Trump continuerà a sostenere i mercati azionari, soprattutto attraverso la sua strategia comunicativa, capace di generare ottimismo anche nei momenti di tensione.
Inoltre, gli speculatori sembrano non temere una risposta aggressiva da parte dell’Europa, che potrebbe innescare una guerra commerciale fuori dal controllo degli Stati Uniti. Le aspettative puntano invece su una negoziazione, che potrebbe portare a risultati favorevoli per gli USA, come una maggiore domanda di Treasury bond o nuovi accordi in ambito energetico/militare. In questo scenario, l’impatto dei dazi introdotti in Europa (magari limitati, ad esempio al 15%) verrebbe temporaneamente eclissato da sviluppi percepiti come positivi.
Lo schema è ormai noto: si scommette sulla razionalità dei governi e sulla convinzione che “alla fine troveranno un accordo”. Ma con valutazioni così elevate sui mercati, cosa accadrebbe se improvvisamente la narrativa diventasse negativa?
Dal punto di vista degli investimenti, manteniamo un atteggiamento costruttivo, poiché questo clima potrebbe non cambiare per diversi mesi. Tuttavia, è fondamentale prestare molta attenzione a cosa compriamo e, soprattutto, a come lo facciamo.