Giovedì scorso, pochi giorni dopo l’elezione del nuovo presidente americano Donald Trump, si è tenuta la decisione sul tasso di interesse da parte della Federal Reserve. La decisione è stata in linea con le attese degli analisti, con un taglio di 25 basis point che ha portato i tassi d’interesse nella fascia compresa tra il 4.50% e il 4.75%.
Secondo il mercato dei Fed Funds, la probabilità prevalente entro la fine dell’anno è di un ulteriore taglio di 25 basis point (con una probabilità stimata intorno al 65%), che spingerebbe i tassi nella fascia 4.25%-4.50%.
La notizia di questo taglio non è stata causa di rialzi, o almeno possiamo dire che è poco probabile che un taglio da 25 basi point, “telefonato”, abbia potuto produrre un qualche effetto su mercati già così euforici dopo la vittoria di Trump.
In occasione della decisione sul tasso di interesse, il presidente Powell ha risposto anche ad alcune domande circa il suo rapporto con la presidenza, in questo caso il rapporto che avrà con Trump. Powell ha subito chiarito, dati i trascorsi tra i due, che se Trump dovesse chiedergli di dimettersi lui non lo farà e continuerà il suo mandato fino alla scadenza, cioè nel maggio 2026.
Va ricordato che durante il suo precedente mandato, Trump aveva più volte criticato pubblicamente Powell, considerandolo poco accomodante nelle sue scelte di politica monetaria. La legge americana, peraltro, non chiarisce con precisione se e in quali circostanze il presidente della Fed possa essere rimosso, salvo per “giusta causa”, ossia in caso di gravi inadempienze o violazioni dei doveri.
Questa controversia riveste una grande importanza teorica, poiché il governo dovrebbe occuparsi esclusivamente di politica fiscale, lasciando la politica monetaria indipendente dall’influenza politica. Qualsiasi interferenza della politica nella gestione della politica monetaria rischierebbe di trasformare quest’ultima in uno strumento elettorale, con conseguenze disastrose per l’economia.
Da un punto di vista economico, la soluzione è chiara: una banca centrale deve rimanere indipendente dalla politica per garantire stabilità e credibilità.
Riguardo al futuro, è difficile immaginare che Trump intraprenda azioni significative per rimuovere Powell, soprattutto considerando che mancano meno di due anni alla fine del suo mandato. Inoltre, l’attuale ciclo di politica monetaria, moderatamente accomodante, sembra destinato a proseguire, salvo accelerazioni dell’inflazione.
Se l’inflazione dovesse aumentare, costringendo Powell a inasprire la politica monetaria con rialzi dei tassi, Trump potrebbe riprendere le sue critiche pubbliche. Tuttavia, rimane improbabile che il governo americano intraprenda un’azione legale per destituire Powell. Perciò, per adesso, possiamo tranquillamente passare oltre rispetto a questo argomento più giornalistico che prettamente economico e capace di influenzare veramente i mercati finanziari.
I mercati azionari continuano a registrare forti rialzi, mentre sul fronte obbligazionario si è osservata una lieve contrazione dei rendimenti negli ultimi giorni. Il rendimento del decennale statunitense è sceso dal 4.45% al 4.26%.
Sorprende invece la performance di Bitcoin, che ha superato la soglia degli 80.000 dollari, raggiungendo nuovi massimi storici. Una spiegazione a posteriori di questa impennata potrebbe essere legata al fatto che l’attuale presidente della SEC, Gary Gensler, noto per la sua rigidità nella regolamentazione delle criptovalute, sarebbe in discussione per una sostituzione sotto la presidenza Trump.
Questo fattore potrebbe aver alimentato l’ottimismo degli investitori, insieme al fatto che è noto come Trump e la sua amministrazione non adotteranno provvedimenti ostili nei confronti del mondo delle criptovalute.
Ora che il risultato delle presidenziali è stato definito e sappiamo chi sarà il prossimo presidente e quali politiche probabilmente implementerà, possiamo individuare il probabile nuovo driver dei mercati per i prossimi mesi. Salvo ulteriori sconvolgimenti geopolitici, l’attenzione si concentrerà principalmente sui dati relativi all’inflazione e al mercato del lavoro americano.
La politica economica di Trump difficilmente sarà restrittiva in termini di contenimento dell’inflazione (vedremo se i tagli alla spesa pubblica e le revisioni di spesa di Elon Musk saranno effettivamente consistenti e positive per la politica fiscale interna). Con una politica monetaria che si mantiene semi-accomodante, potremmo assistere a un possibile ritorno di pressioni inflazionistiche. Tuttavia, come noi ne siamo consapevoli, lo è anche la Federal Reserve, che presumibilmente interverrà tempestivamente, continuando a seguire un approccio basato sui dati.
Un altro elemento che potrebbe favorire il processo di disinflazione sono i dazi imposti dall’amministrazione Trump, i quali potrebbero contribuire a rafforzare il dollaro attraverso un miglioramento della bilancia commerciale. Questo effetto è già in parte riflesso nei movimenti del mercato valutario.
L’andamento di EUR/USD negli ultimi sei mesi mostra chiaramente come il mercato stia gradualmente incorporando queste dinamiche. Dal grafico si osserva che il cambio si trova attualmente intorno a 1.07, rispetto a 1.12 registrato appena un mese fa:
In sintesi, possiamo affermare che l’osservazione dei dati sull’inflazione sarà cruciale nei prossimi mesi. Un aumento eccessivo dell’inflazione potrebbe spingere gli operatori a vendere obbligazioni in anticipo (fenomeno già in atto), determinando un ulteriore rialzo dei rendimenti obbligazionari. Questo scenario potrebbe tradursi in una contrazione dei multipli azionari, causando un ribasso nei mercati azionari.
Va ricordato che non è l’inflazione in sé a essere negativa per i mercati azionari (anzi, può favorire la crescita di alcuni settori), ma è soprattutto una eventuale politica monetaria più restrittiva rispetto alle attese a generare effetti negativi sulle azioni